Musica di spessore
A confronto con il maestro Enrico
Baiano
Ci sono in Italia persone che
suonano strumenti antichi di cui oggi si sente pochissimo parlare? Si può
tranquillamente rispondere di si e lo dimostra il maestro Enrico Baiano,
pianista, musicologo, Clavicembalista, insegnante che suona sia il clavicembalo
che il fortepiamno e, in questa intervista ci parla della sua esperienza.
Qual è il suo rapporto con il
compositore Domenico Scarlatti?
“È tra gli autori che ho approfondito
maggiormente, scrivendo anche vari saggi e un libro, quest’ultimo in
collaborazione con Marco Moiraghi. Da ragazzo mi piaceva suonarlo per la sua
brillantezza e il suo virtuosismo. Crescendo e studiandolo sotto la guida di
Emilia Fadini ho scoperto lo sconfinato universo che la sua musica racchiude,
che deriva dalla sintesi della tradizione italiana nella quale si era formato
(l’eredità frescobaldiana, il contrappunto, l’improvvisazione) , la scuola
italiana sua contemporanea (cantata, opera, stile concertante) e il folclore
musicale iberico e arabo-andaluso; come si sa, Scarlatti si era trasferito a
Lisbona nel 1719 e, nel 1729 in Spagna, al seguito della sua reale allieva,
Maria Barbara di Braganza. Mi sono reso conto che il suo mondo espressivo, la
sua capacità di fondere i diversi elementi, il suo controllo della forma sono
grandi quanto quelli di Bach e di Händel. Scarlatti ha anche dei momenti
profetici: alcune sue pagine precorrono lo stile espressivo e appassionato di
fine Settecento. Non si parla molto della sua influenza sugli autori
successivi, ma essa c’è stata, ed è più pervasiva di quanto non si creda.
Spesso non è immediatamente evidente perché riguarda il modo di organizzare il
discorso musicale; ma ci sono molti casi, in Clementi, Beethoven e perfino in
Brahms, dove è lampante la citazione di un tema, una frase, una figurazione…”
Ha curato edizioni delle sue numerose sonate
per clavicembalo?
“Me ne guardo bene: fare l’edizione
di una Sonata di Scarlatti è tra le sfide più difficili della ricerca musicale.
Non esiste alcun manoscritto autografo delle Sonate, e tuttavia le fonti
principali, manoscritte e a stampa, sono alcune decine! Per fonti principali
intendo sia quelle che sono state redatte presumibilmente sotto la supervisione
dell’autore, che quelle per così dire di ‘seconda generazione’, cioè filiazioni
delle prime. Può capitare che per una Sonata ci siano tredici fonti principali
diverse, ciascuna con sue piccole varianti. Queste varianti possono essere
errori di copiatura, o viceversa correzioni di errori (o presunti tali) della
fonte ‘madre’; ma a volte sembrano ‘varianti di autore’ (per citare Moiraghi),
cioè ripensamenti dello stesso Scarlatti. Inoltre Scarlatti scrive spesso in
maniera anticonvenzionale: certe peculiarità possono essere ‘stranezze’ volute
e non errori… tutto questo rende vana la ricerca di un Ur-text, un testo
‘autentico’, ‘originale’. Il malcapitato revisore deve fare delle scelte, ben
consapevole che esse sono ipotesi provvisorie, e discutere il testo di ciascuna
Sonata nell’apparato critico. Questa gigantesca opera è stata intrapresa
proprio da Emilia Fadini (affiancata negli ultimi anni da Marco Moiraghi), che
nel 1976 ha cominciato la pubblicazione per Ricordi della nuova edizione
critica (in 11 volumi, oggi arrivata al decimo). E’ senz’altro l’edizione
scientificamente e musicologicamente più avanzata oggi esistente: per ogni
sonata è fornito il testo frutto della disamina approfondita delle fonti; in
apparato critico sono riportate ed eventualmente discusse le varianti. Si
arriva al punto di riportare alcune sonate in più versioni, se le differenze di
alcune fonti sono tali da richiederlo. In effetti fu la scoperta di questa
edizione che mi spinse, da ragazzo, a voler conoscere Emilia Fadini e poi a
studiare con lei”.
Quando è nata la sua passione per questo
strumento musicale?
“Nel 1975. Avevo quindici anni; a un
concerto della famosa orchestra da camera ‘I Musici’, che eseguiva ‘Le Quattro
Stagioni’ di Vivaldi, fui molto incuriosito da questo strano strumento: aveva
due tastiere dai colori invertiti rispetto a quelli del pianoforte, era dotato
di ben cinque pedali e, incredibilmente, suonando sulla tastiera inferiore si
azionavano anche i tasti di quella superiore! Oggi noi suoniamo su strumenti
che sono copie fedeli di quelli antichi, ma fino agli anni ’70 del Novecento
imperavano degli strumenti industriali antistorici, specie di pianoforti
pizzicati, dalla meccanica pesante e brutto suono, inventati intorno al 1910.
Ma per un ragazzino curioso quella era una novità assolutamente affascinante.
Dopo il concerto chiesi alla clavicembalista, Maria Teresa Garatti, di
lasciarmi suonare due note. Lei me lo concesse, e cominciai a suonare qualcosa
di Bach; nel frattempo lei mi dava qualche spiegazione sulla funzione e l’uso
dei pedali e delle due tastiere… ero assolutamente strabiliato, mi sembrava di
essere al comando di un’astronave. E la cosa più impressionante era che sentivo
come se lo strumento fosse un prolungamento di me stesso, e che mi bastasse
pensare qualcosa perché lui lo facesse. Quella sera decisi che sarei stato un
clavicembalista”.
Dove in genere si esibisce più
volentieri?
”Mi piacciono le sale piccole, dove c’è
contatto diretto col pubblico”.
Trova che i giovani si accostino con
interesse agli strumenti ed alla musica barocca e preclassica?
“Sì, se ne hanno l’occasione.
Purtroppo in Italia, e specialmente al sud, la musica pre-classica e gli
strumenti storici sono la Cenerentola dell’istruzione musicale: molti hanno
ancora la convinzione che il clavicembalo sia uno strumento povero e superato,
e che lo si debba lasciare a quelli che non riescono bene nel pianoforte. È
molto improbabile che un ragazzo di 15 anni si imbatta in un clavicembalo. E un
giovane di 24, 25 anni magari è già troppo avanti col pianoforte per decidere
di abbandonarlo e dedicarsi al clavicembalo”. Nella sua attività di docente di
conservatorio ha dovuto adattare la didattica, piegandola alle esigenze di
questo periodo di pandemia?
“ Necessariamente sì. Ma non è
facile: il più delle volte la connessione non è efficiente, per cui il suono è
distorto e qualche volta subisce anche accelerazioni e rallentando che
sarebbero comici se non fossero snervanti. Poi c’è la parte tecnica: parte della
lezione è dedicata all’apprendimento e alla pratica di esercizi che servono ad
acquisire ben precise capacità motorie. La vicinanza fisica è essenziale:
l’insegnante mostra il movimento da apprendere, lo studente procede per
tentativi, guidato e corretto dall’insegnante, che, se necessario, deve
controllare la muscolatura per verificare che non ci siano contrazioni
inopportune. Nella lezione online posso solo cercare di indovinare quello che
succede dall’altra parte, sperando nella capacità di autopercezione dello
studente. Inoltre la lezione vive anche sull’esempio estemporaneo
dell’insegnante, che si siede e suona per lo studente, lo sprona mentre suona,
suona insieme a lei/lui, cosa impossibile da sincronizzare online. Altro grave
problema: non tutti gli studenti hanno il clavicembalo (in tempi normali
possono studiare sugli strumenti del Conservatorio). In questo caso si fa
lezione sul pianoforte solitamente scadente che hanno a casa, se non
addirittura su una tastiera; è un lavoro molto faticoso per entrambi, studente
e insegnante, e… completamente inutile”!
Che cosa rappresenta per lei Johann
Sebastian Bach sotto il profilo storico – musicale? “Nella cultura
occidentale Bach è, nella musica, ciò che sono Dante e Shakespeare per la
letteratura. È una personalità gigantesca che ha saputo riassumere e
sintetizzare tutte le esperienze musicali del Cinque e Seicento, le ha
rinnovate e ha gettato le basi per un nuovo modo di pensare in musica, che ha
influenzato i due secoli successivi. Nell’Ottocento Bach divenne uno dei
principali pilastri dell’orgoglio nazionale tedesco, oggetto di un culto che ne
idealizzò la figura. Lo si ritrasse come eroico esempio di artista incompreso
ed isolato nella sua grandezza, avversato dal mondo e dal fato; i documenti disponibili
furono letti, interpretati e comunicati in modo da tutelare questa immagine
preconcetta. Prese così forma il luogo comune del Bach ‘artigiano’, tutto
dedito alla famiglia e al lavoro di bottega, tranquillo, devoto, umile ed
incompreso, occasionalmente impegnato controvoglia nella musica profana ma
essenzialmente rivolto alla chiesa ed alla composizione di musica sacra…
insomma, un vero noioso bacchettone! Macché: Bach era uomo dalla personalità
impulsiva e focosa, facile agli entusiasmi quanto veloce nelle disillusioni;
insofferente dell’autorità, collerico, caloroso con chi stimava e sprezzante
con i mediocri (poveri allievi!), capace di arcigna serietà come di umorismo da
taverna. E soprattutto compositore dedito con passione ed entusiasmo alla musica
profana ed ai concerti, felice della fama e dei riconoscimenti che ne riceveva,
atteggiamento non incompatibile con la fede vera e profonda. Questo ci porta
anche a rivedere l’approccio interpretativo che vorrebbe un Bach esclusivamente
astratto e matematico, completamente inespressivo: tutto viene risolto nel “bel
suono” e nella precisione e perfezione degli incastri polifonici; un ascolto
prolungato richiede l’assunzione preventiva di una pinta di caffè forte! Non
posso non aggiungere che anche il povero Scarlatti è vittima di luoghi comuni
preconfezionati; dev’essere leggero, brillante e superficiale: le sue più
selvagge sonate scorrono via con algido nitore, suscitando la stessa pena delle
tigri in gabbia travestite da clown e costrette a eseguire compiti idioti… Il
pianista che voglia affrontare l’interpretazione dell’opera di Bach (e della
musica pre-romantica in generale) deve farsi coraggio e non avere paura di essere
espressivo e ‘parlante’”.
Secondo
lei gli studenti mostrano difficoltà, in generale, nello studio e nella pratica
di realizzazione del basso continuo?
“Sì: la buona realizzazione di un basso
continuo richiede molte più capacità e molta più preparazione dell’esecuzione
del repertorio. Nel repertorio per lo meno si ha davanti agli occhi un brano
compiuto, che si può arrivare ad eseguire decentemente con le opportune
istruzioni tecniche, stilistiche ed interpretative. Una linea di basso -
cifrata o non - richiede una procedura complessa: la decodifica delle funzioni
armoniche, la sua realizzazione astratta in mente, l’esecuzione pratica sulla
tastiera; si deve suonare qualcosa che non si ‘vede’, che si è solo immaginato,
seguendo regole ben precise, rispettando anche lo stile e il carattere del
pezzo; questo presuppone una preparazione tecnica avanzata, perché la
realizzazione non dev’essere ostacolata da difficoltà motorie. E siamo solo al
punto di partenza, perché il basso continuo è l’accompagnamento, sostegno e
guida dei solisti, e spesso è perfino il ‘direttore d’orchestra’. Per lo studente
medio sono necessari dai sette ai dieci anni di studio per arrivare alla
lettura estemporanea e disinvolta di un basso continuo”. E’ possibile che le
interpretazioni pianistiche della musica originariamente destinata al
clavicembalo risultino comunque soddisfacenti e fedeli alle prassi esecutive
della musica antica?
“Sì, basta volerlo. Potremmo dire
che la prassi esecutiva è la corretta pronuncia di una data lingua. Nessuno
apprezzerebbe un attore che, non conoscendo bene l’italiano, recitasse
Pirandello con vistosi errori di pronuncia, intonazione sbagliata e forte accento
straniero. Questo vale anche per la musica; per esempio, il valzer viennese è
caratterizzato da una lieve anticipazione del secondo movimento: questa
peculiarità non può essere mai abbandonata, che lo si suoni con l’orchestra, al
pianoforte, alla fisarmonica o alla chitarra. È possibile ‘insegnare’ al
proprio strumento le ‘regole stilistiche di pronuncia’ del brano che si sta
interpretando, anche se le sue caratteristiche intrinseche faranno
inevitabilmente perdere qualche sfumatura. Forse la vera difficoltà
nell’eseguire musica antica sul pianoforte moderno è la gestione del suono. Il
clavicembalo e il fortepiano, infatti, sono caratterizzati da un attacco
brillante e da una relativa brevità di tenuta del suono. Questa peculiarità non
è uno svantaggio, come potrebbe sembrare a prima vista, perché si integra
perfettamente con l’estetica barocca e in generale settecentesca. La
declamazione musicale, fino a fine Settecento, si articola per brevissimi
sintagmi, separati da una gamma infinita di articolazioni che va da un quasi
impercettibile respiro allo staccato netto. Nell’evoluzione del pianoforte
moderno si sono introdotte modifiche volte ad addolcire l’attacco e ad
allungare il suono; la difficoltà perciò consiste nel conciliare queste
caratteristiche con la ‘pronuncia’ barocca e classica: non bisogna ‘incollare’
insieme tutti i suoni e, all’opposto, non bisogna suonare tutto staccato”.
E’ a suo agio nel suonare anche il
clavicordo ed il fortepiano?
“Certamente! Il clavicordo è alla
base dello studio di tutti gli strumenti a tastiera. È uno strumento esigente,
ma affascinante e altamente formativo. Quando sono a casa io comincio la
giornata con un’ora e mezza di studio al clavicordo. Per un ex-pianista, poi,
il fortepiano è il naturale completamento della famiglia. Attualmente sto
preparando alcune sonate di Beethoven. Sarebbe bello se gli aspiranti studenti
di tastiere potessero cominciare col clavicordo, aggiungendo via via il
clavicembalo, l’organo, il fortepiano e il pianoforte… per poi scegliere a quale
dedicarsi. Utopia di insegnante…”.
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