mercoledì 6 gennaio 2021

Parola al maestro Enrico Baiano

Musica di spessore

A confronto con il maestro Enrico Baiano

 

Ci sono in Italia persone che suonano strumenti antichi di cui oggi si sente pochissimo parlare? Si può tranquillamente rispondere di si e lo dimostra il maestro Enrico Baiano, pianista, musicologo, Clavicembalista, insegnante che suona sia il clavicembalo che il fortepiamno e, in questa intervista ci parla della sua esperienza.

                                                                                                    

Qual è il suo rapporto con il compositore Domenico Scarlatti?

 “È tra gli autori che ho approfondito maggiormente, scrivendo anche vari saggi e un libro, quest’ultimo in collaborazione con Marco Moiraghi. Da ragazzo mi piaceva suonarlo per la sua brillantezza e il suo virtuosismo. Crescendo e studiandolo sotto la guida di Emilia Fadini ho scoperto lo sconfinato universo che la sua musica racchiude, che deriva dalla sintesi della tradizione italiana nella quale si era formato (l’eredità frescobaldiana, il contrappunto, l’improvvisazione) , la scuola italiana sua contemporanea (cantata, opera, stile concertante) e il folclore musicale iberico e arabo-andaluso; come si sa, Scarlatti si era trasferito a Lisbona nel 1719 e, nel 1729 in Spagna, al seguito della sua reale allieva, Maria Barbara di Braganza. Mi sono reso conto che il suo mondo espressivo, la sua capacità di fondere i diversi elementi, il suo controllo della forma sono grandi quanto quelli di Bach e di Händel. Scarlatti ha anche dei momenti profetici: alcune sue pagine precorrono lo stile espressivo e appassionato di fine Settecento. Non si parla molto della sua influenza sugli autori successivi, ma essa c’è stata, ed è più pervasiva di quanto non si creda. Spesso non è immediatamente evidente perché riguarda il modo di organizzare il discorso musicale; ma ci sono molti casi, in Clementi, Beethoven e perfino in Brahms, dove è lampante la citazione di un tema, una frase, una figurazione…”

 Ha curato edizioni delle sue numerose sonate per clavicembalo?

“Me ne guardo bene: fare l’edizione di una Sonata di Scarlatti è tra le sfide più difficili della ricerca musicale. Non esiste alcun manoscritto autografo delle Sonate, e tuttavia le fonti principali, manoscritte e a stampa, sono alcune decine! Per fonti principali intendo sia quelle che sono state redatte presumibilmente sotto la supervisione dell’autore, che quelle per così dire di ‘seconda generazione’, cioè filiazioni delle prime. Può capitare che per una Sonata ci siano tredici fonti principali diverse, ciascuna con sue piccole varianti. Queste varianti possono essere errori di copiatura, o viceversa correzioni di errori (o presunti tali) della fonte ‘madre’; ma a volte sembrano ‘varianti di autore’ (per citare Moiraghi), cioè ripensamenti dello stesso Scarlatti. Inoltre Scarlatti scrive spesso in maniera anticonvenzionale: certe peculiarità possono essere ‘stranezze’ volute e non errori… tutto questo rende vana la ricerca di un Ur-text, un testo ‘autentico’, ‘originale’. Il malcapitato revisore deve fare delle scelte, ben consapevole che esse sono ipotesi provvisorie, e discutere il testo di ciascuna Sonata nell’apparato critico. Questa gigantesca opera è stata intrapresa proprio da Emilia Fadini (affiancata negli ultimi anni da Marco Moiraghi), che nel 1976 ha cominciato la pubblicazione per Ricordi della nuova edizione critica (in 11 volumi, oggi arrivata al decimo). E’ senz’altro l’edizione scientificamente e musicologicamente più avanzata oggi esistente: per ogni sonata è fornito il testo frutto della disamina approfondita delle fonti; in apparato critico sono riportate ed eventualmente discusse le varianti. Si arriva al punto di riportare alcune sonate in più versioni, se le differenze di alcune fonti sono tali da richiederlo. In effetti fu la scoperta di questa edizione che mi spinse, da ragazzo, a voler conoscere Emilia Fadini e poi a studiare con lei”.

 Quando è nata la sua passione per questo strumento musicale?

“Nel 1975. Avevo quindici anni; a un concerto della famosa orchestra da camera ‘I Musici’, che eseguiva ‘Le Quattro Stagioni’ di Vivaldi, fui molto incuriosito da questo strano strumento: aveva due tastiere dai colori invertiti rispetto a quelli del pianoforte, era dotato di ben cinque pedali e, incredibilmente, suonando sulla tastiera inferiore si azionavano anche i tasti di quella superiore! Oggi noi suoniamo su strumenti che sono copie fedeli di quelli antichi, ma fino agli anni ’70 del Novecento imperavano degli strumenti industriali antistorici, specie di pianoforti pizzicati, dalla meccanica pesante e brutto suono, inventati intorno al 1910. Ma per un ragazzino curioso quella era una novità assolutamente affascinante. Dopo il concerto chiesi alla clavicembalista, Maria Teresa Garatti, di lasciarmi suonare due note. Lei me lo concesse, e cominciai a suonare qualcosa di Bach; nel frattempo lei mi dava qualche spiegazione sulla funzione e l’uso dei pedali e delle due tastiere… ero assolutamente strabiliato, mi sembrava di essere al comando di un’astronave. E la cosa più impressionante era che sentivo come se lo strumento fosse un prolungamento di me stesso, e che mi bastasse pensare qualcosa perché lui lo facesse. Quella sera decisi che sarei stato un clavicembalista”.

Dove in genere si esibisce più volentieri?

 ”Mi piacciono le sale piccole, dove c’è contatto diretto col pubblico”.

 Trova che i giovani si accostino con interesse agli strumenti ed alla musica barocca e preclassica?

“Sì, se ne hanno l’occasione. Purtroppo in Italia, e specialmente al sud, la musica pre-classica e gli strumenti storici sono la Cenerentola dell’istruzione musicale: molti hanno ancora la convinzione che il clavicembalo sia uno strumento povero e superato, e che lo si debba lasciare a quelli che non riescono bene nel pianoforte. È molto improbabile che un ragazzo di 15 anni si imbatta in un clavicembalo. E un giovane di 24, 25 anni magari è già troppo avanti col pianoforte per decidere di abbandonarlo e dedicarsi al clavicembalo”. Nella sua attività di docente di conservatorio ha dovuto adattare la didattica, piegandola alle esigenze di questo periodo di pandemia?

“ Necessariamente sì. Ma non è facile: il più delle volte la connessione non è efficiente, per cui il suono è distorto e qualche volta subisce anche accelerazioni e rallentando che sarebbero comici se non fossero snervanti. Poi c’è la parte tecnica: parte della lezione è dedicata all’apprendimento e alla pratica di esercizi che servono ad acquisire ben precise capacità motorie. La vicinanza fisica è essenziale: l’insegnante mostra il movimento da apprendere, lo studente procede per tentativi, guidato e corretto dall’insegnante, che, se necessario, deve controllare la muscolatura per verificare che non ci siano contrazioni inopportune. Nella lezione online posso solo cercare di indovinare quello che succede dall’altra parte, sperando nella capacità di autopercezione dello studente. Inoltre la lezione vive anche sull’esempio estemporaneo dell’insegnante, che si siede e suona per lo studente, lo sprona mentre suona, suona insieme a lei/lui, cosa impossibile da sincronizzare online. Altro grave problema: non tutti gli studenti hanno il clavicembalo (in tempi normali possono studiare sugli strumenti del Conservatorio). In questo caso si fa lezione sul pianoforte solitamente scadente che hanno a casa, se non addirittura su una tastiera; è un lavoro molto faticoso per entrambi, studente e insegnante, e… completamente inutile”!

 Che cosa rappresenta per lei Johann Sebastian Bach sotto il profilo storico – musicale? “Nella cultura occidentale Bach è, nella musica, ciò che sono Dante e Shakespeare per la letteratura. È una personalità gigantesca che ha saputo riassumere e sintetizzare tutte le esperienze musicali del Cinque e Seicento, le ha rinnovate e ha gettato le basi per un nuovo modo di pensare in musica, che ha influenzato i due secoli successivi. Nell’Ottocento Bach divenne uno dei principali pilastri dell’orgoglio nazionale tedesco, oggetto di un culto che ne idealizzò la figura. Lo si ritrasse come eroico esempio di artista incompreso ed isolato nella sua grandezza, avversato dal mondo e dal fato; i documenti disponibili furono letti, interpretati e comunicati in modo da tutelare questa immagine preconcetta. Prese così forma il luogo comune del Bach ‘artigiano’, tutto dedito alla famiglia e al lavoro di bottega, tranquillo, devoto, umile ed incompreso, occasionalmente impegnato controvoglia nella musica profana ma essenzialmente rivolto alla chiesa ed alla composizione di musica sacra… insomma, un vero noioso bacchettone! Macché: Bach era uomo dalla personalità impulsiva e focosa, facile agli entusiasmi quanto veloce nelle disillusioni; insofferente dell’autorità, collerico, caloroso con chi stimava e sprezzante con i mediocri (poveri allievi!), capace di arcigna serietà come di umorismo da taverna. E soprattutto compositore dedito con passione ed entusiasmo alla musica profana ed ai concerti, felice della fama e dei riconoscimenti che ne riceveva, atteggiamento non incompatibile con la fede vera e profonda. Questo ci porta anche a rivedere l’approccio interpretativo che vorrebbe un Bach esclusivamente astratto e matematico, completamente inespressivo: tutto viene risolto nel “bel suono” e nella precisione e perfezione degli incastri polifonici; un ascolto prolungato richiede l’assunzione preventiva di una pinta di caffè forte! Non posso non aggiungere che anche il povero Scarlatti è vittima di luoghi comuni preconfezionati; dev’essere leggero, brillante e superficiale: le sue più selvagge sonate scorrono via con algido nitore, suscitando la stessa pena delle tigri in gabbia travestite da clown e costrette a eseguire compiti idioti… Il pianista che voglia affrontare l’interpretazione dell’opera di Bach (e della musica pre-romantica in generale) deve farsi coraggio e non avere paura di essere espressivo e ‘parlante’”.

  Secondo lei gli studenti mostrano difficoltà, in generale, nello studio e nella pratica di realizzazione del basso continuo?

 “Sì: la buona realizzazione di un basso continuo richiede molte più capacità e molta più preparazione dell’esecuzione del repertorio. Nel repertorio per lo meno si ha davanti agli occhi un brano compiuto, che si può arrivare ad eseguire decentemente con le opportune istruzioni tecniche, stilistiche ed interpretative. Una linea di basso - cifrata o non - richiede una procedura complessa: la decodifica delle funzioni armoniche, la sua realizzazione astratta in mente, l’esecuzione pratica sulla tastiera; si deve suonare qualcosa che non si ‘vede’, che si è solo immaginato, seguendo regole ben precise, rispettando anche lo stile e il carattere del pezzo; questo presuppone una preparazione tecnica avanzata, perché la realizzazione non dev’essere ostacolata da difficoltà motorie. E siamo solo al punto di partenza, perché il basso continuo è l’accompagnamento, sostegno e guida dei solisti, e spesso è perfino il ‘direttore d’orchestra’. Per lo studente medio sono necessari dai sette ai dieci anni di studio per arrivare alla lettura estemporanea e disinvolta di un basso continuo”. E’ possibile che le interpretazioni pianistiche della musica originariamente destinata al clavicembalo risultino comunque soddisfacenti e fedeli alle prassi esecutive della musica antica?

“Sì, basta volerlo. Potremmo dire che la prassi esecutiva è la corretta pronuncia di una data lingua. Nessuno apprezzerebbe un attore che, non conoscendo bene l’italiano, recitasse Pirandello con vistosi errori di pronuncia, intonazione sbagliata e forte accento straniero. Questo vale anche per la musica; per esempio, il valzer viennese è caratterizzato da una lieve anticipazione del secondo movimento: questa peculiarità non può essere mai abbandonata, che lo si suoni con l’orchestra, al pianoforte, alla fisarmonica o alla chitarra. È possibile ‘insegnare’ al proprio strumento le ‘regole stilistiche di pronuncia’ del brano che si sta interpretando, anche se le sue caratteristiche intrinseche faranno inevitabilmente perdere qualche sfumatura. Forse la vera difficoltà nell’eseguire musica antica sul pianoforte moderno è la gestione del suono. Il clavicembalo e il fortepiano, infatti, sono caratterizzati da un attacco brillante e da una relativa brevità di tenuta del suono. Questa peculiarità non è uno svantaggio, come potrebbe sembrare a prima vista, perché si integra perfettamente con l’estetica barocca e in generale settecentesca. La declamazione musicale, fino a fine Settecento, si articola per brevissimi sintagmi, separati da una gamma infinita di articolazioni che va da un quasi impercettibile respiro allo staccato netto. Nell’evoluzione del pianoforte moderno si sono introdotte modifiche volte ad addolcire l’attacco e ad allungare il suono; la difficoltà perciò consiste nel conciliare queste caratteristiche con la ‘pronuncia’ barocca e classica: non bisogna ‘incollare’ insieme tutti i suoni e, all’opposto, non bisogna suonare tutto staccato”.

E’ a suo agio nel suonare anche il clavicordo ed il fortepiano?

“Certamente! Il clavicordo è alla base dello studio di tutti gli strumenti a tastiera. È uno strumento esigente, ma affascinante e altamente formativo. Quando sono a casa io comincio la giornata con un’ora e mezza di studio al clavicordo. Per un ex-pianista, poi, il fortepiano è il naturale completamento della famiglia. Attualmente sto preparando alcune sonate di Beethoven. Sarebbe bello se gli aspiranti studenti di tastiere potessero cominciare col clavicordo, aggiungendo via via il clavicembalo, l’organo, il fortepiano e il pianoforte… per poi scegliere a quale dedicarsi. Utopia di insegnante…”.

 

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